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Nicola Berti

Per conoscere Marino Marin

Il poeta di Adria e della terra polesana

Fuori Collana
2010, pp. 126, 15x21 cm, brossura

ISBN: 9788888786773
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Scheda libro

Leggendo le bozze di questo importante lavoro di Nicola Berti mi sono trovato a ripensare a fondo a quel poco che sapevo di Marin Marin. Di Marin avevo (e continuo ad avere) una conoscenza superficiale, da lettore curioso e, soprattutto, innamorato della città e del territorio che il poeta polesano ha cantato e raccontato. Un atteggiamento di certo non sufficiente ad esprimere quello che in genere viene definito un giudizio critico su un autore, al quale si arrivi dopo un esame accurato ed approfondito di quanto quell’ autore ha prodotto. Il libro di Berti, con il suo nitore appassionato e la sua struttura criticamente efficace, mi ha fatto scattare il desiderio di andare a rivedere i testi di Marin partendo proprio dagli esiti che emergono dal suo studio. Già questo credo dimostri l’efficacia di questo lavoro di ricerca nato da una passione evidentemente più che decennale che Berti scarica sulla pagina. Ma a parte questo, mi sono reso conto che più o meno tacitamente le pagine di Berti sono percorse da una domanda che è la stessa che emergeva in me via via che leggevo o rileggevo le opere di Marin: cosa resta, oggi, della sua opera? Una domanda in sè piuttosto perfida, che maschera anche un’altra questione evidentemente innegabile: celebrato come poeta ufficiale, diciamo così, della città di Adria e più in generale del Polesine, di questo poeta si conosce ancora troppo poco; perchè finora (fino a questo lavoro di scavo di Nicola Berti), si è pensato più a celebrarlo di tanto in tanto che a studiarlo, con il risultato che la trasmissione della sua opera rischia via via di attenuarsi, di affievolirsi fino a scomparire. Perchè se trattiamo Marin come un reperto, dobbiamo anche capire che i reperti vanno restaurati, continuamente spiegati, spinti verso l’attenzione di un pubblico che bisogna anche saper interessare. Senza questo lavoro, diciamolo con chiarezza, dell’opera di Marin resterà ben poco.

Credo sia questo, essenzialmente, il valore fondamentale della ricerca di Nicola Berti. Che imposta il suo lavoro dividendolo in tre sezioni: “La vita”, “La poetica”, “Le opere”. Una struttura chiara ed essenziale, che propone al lettore in chiave semplice (non certo semplicistica) ma completa tutto ciò che è necessario sapere e che finora si sa sull’opera di Marin. Più volte Nicola mi ha detto: “Non sono un critico letterario di professione, e più che una ricerca di critica letteraria in senso stretto vorrei produrre una ricerca sulla figura e l’opera di Marin che servisse a quanti si volessero avvicinare a lui per riscoprirlo”. Una dichiarazione d’intenti che rivela non solo modestia, ma anche e soprattutto passione e tenacia, e che ha portato Berti a fare l’unica cosa possibile e necessaria se si vuole salvare Marino Marin dall’oblio: delinearne un profilo critico in maniera semplice e lineare, senza lasciare nulla al caso. Che significa, per quanto Berti non sia d’accordo, aver fatto quello che dovrebbe fare un critico letterario: puntare i riflettori e illuminare angoli bui, richiamare all’attenzione, ridestare interesse.

Un’operazione tanto più difficile (ma perfettamente riuscita) quanto più è evidente che la stessa opera di Marin ci chiede questo intervento per poter continuare a sopravvivere. E’ evidente che le sue poesie oggi faticano a parlarci. Rileggendolo, ho immaginato spesso un lettore di oggi (penso soprattutto ad un giovane), che si confronti con un suo testo pieno di termini datati, chiusi nello schema poetico faticoso del poetare tardo ottocentesco. Marin fa fatica oggi a parlarci perchè è rimasto prigioniero non tanto della provincia che tanto amava (e che, nel caso di Adria, è impossibile non amare), quanto del provincialismo da lui stesso eletto a poetica. Potente e competente dal punto di vista tecnico, con un bagaglio culturale molto ampio, Marin è però rimasto sordo ai fermenti culturali più innovativi della sua epoca; li ha anzi respinti coscientemente, chiudendosi a riccio e mitizzando un’ideale di poesia che già al suo tempo era al di fuori della storia. Si citano spesso Pascoli e Carducci come dei modelli di riferimento: giusto, ma è come se di questi avesse colto ed imparato solo una posa, l’atteggiamento esteriore, senza cogliere la carica assolutamente innovativa che la loro poesia (soprattutto quella di Pascoli) conteneva. Si è fermato, ha avuto paura, ha temuto sempre che lasciare il viottolo di campagna su cui camminava sereno significasse misurarsi con il nuovo rimanendone sconvolti, sbigottiti, storditi. Spiace dirlo, ma è l’atteggiamento tipico di quelli che la storia della letteratura in genere relega nella categoria dei “minori”.

Per dirla con un antico proverbio spagnolo, quando leggo Marin ho sempre l’impressione che si senta il rumore del mulino, ma non riesca mai a vedere la farina. Tecnicamente si è di fronte ad un poeta vero, ma riesce a parlarci a fatica, ed a fatica oggi lo seguiamo nei suoi percorsi; soprattutto perchè troppo spesso nelle sue poesie si respira un clima di claustrofobia, tanto più quanto quei testi si chiudono sopra due soli aspetti: dio ed il piccolo mondo (antico) che lo imbeve di sensazioni, ma in fondo in fondo lo stringe, lo soffoca. Se penso ad un altro Marin, il friulano Biagio, ancora oggi considerato dai critici laureati un grande della poesia del novecento, la differenza con il nostro Marino è abissale: entrambi raccontano un piccolo mondo, ma il primo sceglie una lingua viva (il dialetto gradese) per raccontare un mondo che muore perchè muta; il secondo sceglie una lingua morta (quella del canone della tradizione poetica italiana) per raccontare un mondo morto e sepolto. Una bella differenza, che fa diventare Biagio Marin un poeta sempre fresco ed entusiasmante; Marino Marin un poeta faticoso e superato.

E allora, cosa fare di Marin? Non è in contraddizione con quanto ho appena detto sostenere che è necessario tornare a leggerlo ed a studiarlo. Perchè sotto il vecchiume di maggior parte della sua opera, questo lo abbiamo detto, c’è comunque un poeta vero. Contraddittorio e faticoso, ma vero. Ha prodotto buoni versi, ha lottato con gli elementi e con l’ispirazione, ha raccontato comunque una fetta di storia di questo nostro straordinario territorio, ne ha descritto le atmosfere. Ed oltre all’elemento locale ha comunque descritto stati d’animo universali, con i quali tutti dobbiamo confrontarci. La storia della letteratura, quella che si scrive con la maiuscola, lo ha certo dimenticato, anzi, non lo ha nemmeno mai preso in considerazione. Ma Adria ed il Polesine non lo possono e non lo devono dimenticare. Non credo si possa parlare di una riscoperta, che implicherebbe un radicale mutamento di giudizio critico che francamente non vedo possibile. Sono convinto invece che si debba parlare proprio di dovere: sia civile che culturale, visto che porsi dei problemi e continuare a conoscere non significa per forza rivalutare. Dovere di conoscere, quindi, che è e deve essere formativo soprattutto per le giovani generazioni. Torno a dire che per compiere tutto questo il lavoro svolto da Nicola Berti risulta essere indispensabile; non soltanto perchè questa ricerca ripropone con dovizia di metodo la vicenda umana e poetica di Marino Marin, ma pure perchè insegna che la passione per la propria terra si dimostra anche faticando anni a raccogliere dati e documenti per ricostruire la vita ed il lavoro di un uomo che questo territorio lo ha amato e descritto attraverso un punto di vista particolare che è, comunque sia andata, quello di un poeta. E lo sguardo dei poeti (anche se non va per nulla di moda) ha sempre qualcosa da insegnare (Sandro Marchioro)

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